Per il nostro viaggio nell’est Europa Telč, insieme a Praga, è stata una delle principali ragioni motivanti. Avevo visto quel paese e la sua magnifica piazza nel film Wojzek di Herzog e ne ero rimasto suggestionato. Per sapere di più del film e individuare la location ero andato alla biblioteca della Cineteca di Bologna (non c’era ancora internet) e alla fine sono riuscito a sapere, considerandolo un piccolo trofeo, che il film era stato ambientato a Telč. E così siamo partiti.
Il viaggio nell’est Europa è stato fatto nel 1989, poco prima della caduta del muro di Berlino, e vigevano ancora le condizioni di un certo controllo. Il nostro alloggio a Telč per un colpo di fortuna è stato nell’albergo posto al centro della piazza. Ricordo un silenzioso ed incantevole albeggiare dai toni bluastri. Mi sembra di avere fatto qualche diapositiva. Dovrò cercarle.
A questi tenui ricordi si aggiunge la riscoperta di questi negativi, dopo 30 anni esatti. Non avevo fatto neanche i provini, per vedere in piccolo le foto, e ricordavo solo dell’entusiasmo con cui avevo fotografato con lo specchio il ponte San Carlo a Praga, e delle foto, sempre con lo speccio, a Telč. Ma a parte il sapore di curiosità per questi negativi che ogni tanto ritornava, non ricordavo più le immagini. Per una serie di coincidenze, in questi giorni ho scansionato i negativi e ho così potuto vedere di cosa si trattava. Devo subito dire che non sono molto pratico nel trarre il meglio dallo scanner e che sono ancora indeciso su quale sviluppo dare alle immagini. L’album riflette l’indecisione, ci sono infatti dei bianco e neri puri, altri virati in seppia, altri con tonalità restituite dallo scanner. Ci sono immagini dalla tonalità rosata che non mi dispiaccioni. Intanto ho voluto condividerle, anche se variegate, perchè riflettono l’umore variegato di quell’esperienza.
Telč è un bijou, le sue facciate di colori tenui, le forme sensuali e curvilinee delle case, sembra un set e mi chiedo cosa ci sia dietro quelle facciate riposanti e seducenti. Le foto con lo specchio ricombinano le prospettive con un entusiasmo giocoso. L’enigma dello specchio porta a dire che vi è una stranezza rispetto all’apparente forma che ci attrae. I toni lieti di una vita serena già con il bianco e nero diventano sfumature di grigio o comunque monocromatiche. Ma la vera stranezza è restituita dalla combinazione tra realtà e illusione dell’immagine riflessa. Il mondo nelle foto non è come appare. L’attrazione riposante delle forme di Telč viene inquietata dal mix di realtà e apparenza. Con un salto metalinguistico si può dire che la stessa fotografia, e sicuramente l’arte in generale, è questo sdoppiamento straniante. In fondo, se nel momento di ripresa io vedevo una realtà reale e la mixavo con un’immagine apparente nello specchio, la foto finale restituisce il cortocircuito tra realtà e illusione, tra apparizione e apparenza, come un’immagine in cui entrambe le dimensioni sono accoumunate diventando una forma unitaria artificiale (Ceci c’est ne pas une pipe, di Magritte). A questo punto è l’arte stessa ad essere un doppio straniante che pone domande alla nostra percezione ovvia della realtà.
Telč è il mondo, è l’universo, è l’intera realtà seducente e attraente, che ferma lo sguardo su di sè. La frattura mimetica dello specchio, che “stranizza” la forma, pone al nostro sguardo contemplativo uno scossone salutare che ci fa tornare alla realtà vera con alcune domande inedite: Cosa sei o mondo? Cos’è questo tuo apparire, che rasenta l’apparenza? Ed io, che insieme a te esisto in questo momento, che sono? Cos’è mai quest’essere che ammira e cerca, contempla e domanda? C’è un silenzio nelle foto di Telč che riflette non tanto il silenzio di risposta alle domande, ma il silenzio stesso seducente dell’essere che appare, ancora più seducente della forma riposante senza domande. Contemplare il mondo da questa prospettiva rende serio l’attimo, lo rende importante, pregnante, denso e vitale. Ogni attimo.
Le prospettive fuggenti di Telč, le scene di vita quotidiana, di gente che passeggia o siede nelle numerose panchine, commuove, mi commuove per il lavoro dell’uomo di rendere ospitale il tempo che passa, per renderlo a volte un muro senza oltre, una piatta e ovvia scenografia dell’apparenza senza dramma. Invece io vedo il dramma dietro le case sensuali. Il dramma è scritto perfino nel tentativo di annullarlo. Ma vedo anche la bellezza del sacro. La statua della Madonna nella piazza mostra che la bella forma non è solo fuga dal dramma dell’enigmatico esistere, ma lettura saggia. L’apparire del mondo, il nostro abitarlo, non è un insensato inganno, un divenire immotivato che pone atrocemente domande senza risposta. Il sacro ha assunto forma mondana. La Madonna è la casa dell’evento che salva il tempo dall’assurdo. Le prospettive assolate, che mi sembrano quasi spagnoleggianti, arridono a un senso. Le belle forme seducenti non dicono “Siamo belle e siamo tutto quelle che c’è”, ma “Siamo belle perchê siamo segno di Colui che è”. L’essere diveniente del mondo è segno dell’eterno. Lo specchio, o meglio l’immagine combinata con il riflesso, lo indica, come lo indica a ben guardare la piazza di Telč.
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