Dove abita la realtà? Dentro il sogno.
Come si chiama il narratore del reale? Piacere.
Ti sei mai chiesto perchè suona la campana? Per te.
Domande sceme per accompagnare alcune foto? Solo in parte. Potrebbero essere titoli di un tema. Sul mio tavolo qualcuno ha vuotato una borsa. Vari oggetti. Tre miniassorbenti o.b. fatti come proiettili di grosso calibro. Una salvietta profumata con sopra il disegno di un cuore e la scritta “La qualità ha un cuore di carta”. Un’agendina colore arancio con elastico. La sfoglio: appuntamenti e orari, otorino, massaggio, pagare canone rai, dentista, esame delle medie del figlio, suo ritorno da un viaggio, un santino con l’immagine di una Stauroteca conservata a Nonantola. Due biro, una custodia di plastica consunta con documenti vari. Forme di reale.
Narrare il reale con piacere è sognarlo. E parlare di sogno è un altro modo per affermare di amare il mondo, anche nella sua apparente semplicità. Sognare il reale non è fantasticare ma amare ciò che c’è. Tutto quanto? Non necessariamente. Ma buona parte. O almeno, l’artista lo sa fare: amare tanto e saperlo raccontare. Sognare il reale non è tradirlo per chissà quale altro luogo. Penso che la risurrezione sia l’esplicitazione della gloriosità di ogni piccolo istante, volto, luogo, momento. Proprio quelli che ora viviamo sbuffando, sognando di fuggire, inseguendo il canto delle sirene. Il viaggio lo sa fare chi ha incontrato il bello di casa. Tanto, ci sarà nostalgia ovunque. Niente e nessuno, neppure l’eroe che passa, neppure la favolosa modella, o la strabiliante scogliera, niente sarà il definitivo arrivo per noi che amiamo il suono delle campane.
Tuttavia l’arte sveste l’amato mondo, lo deve fare. C’è dialettica nell’amore. Presagire l’Arrivo, la Meta, il Senso grazie all’amore incontrato in un preciso momento, palesa insieme la sua incompiutrezza e impossibilità. Promette troppo ciò che si ama. Non sa mantenerlo. Non può. Non riesce. Non è colpa sua. È che è proprio nella natura delle cose, che hanno un limite. Svestire il mondo, svelare l’inganno di assolutezza che ci facciamo mentre esso è via, viaggio, suono che chiama a raccoltà, all’incontro, quest’opera di svelamento è l’opera dell’arte, della narrazione artistica. Tagliare il reale con la lama di uno specchio, sovrapporlo con un’immagine di sogno, frantumarlo, produrre l’inganno per disingannare, reinventare altre forme…, sono tutti modi per spiazzare il sedersi nella forma, l’assolutizzarla come se fosse la meta. Mentre non basta. È tradire il mondo svelarne il limite? Non credo. Sarebbe tradimento il trattarlo per quello che non è. Non è il Tutto, è un dito puntato verso la Luna. È un suono di campane che chiamano a festa, alla festa dell’incontro con il Risorto, con la possibilità dell’adempimento della promessa contenuta in tutte le cose. La desacralizzazione di questa forma d’arte è la più alta forma di sacralità e di amore. Le cose vanno guardate come segni e tracce, come cifre (che viene dall’arabo e significa vuoto, zero). Un vuoto da rempire. Non uno zero nel senso di non valore, di nulla. Il vuoto non è il nulla. Lo zero contiene gli infiniti numeri. Li indica, li presagisce. Dire zero e dire cifra presuppone ciò che sembra escludere.
Adorno ha scritto nel suo Minima moralia:
La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sui mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a priori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dessesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica.
Dissestare il mondo, fenderlo, creparlo, aprire varchi, possiblità, finestre, è il più alto sevizio che l’arte, e la filosofia, e la religione, possono fare al mondo. È lo scampanio che suona per noi, che ci fa sognare il mondo. Ferendolo percepiamo l’Oltre; lo zero, la cifra, indica il Numero; il finito e il limite suppongono l’infinito. È la Pasqua del Risorto che desacralizza ciò che non può riempire ma lo nobilita al massimo nella sua vocazione di anticipo, di promessa e caparra.
Forse nelle diverse foto quei triangoli puntuti che si innalzano verso il cielo più che piramidi (cosa che pensavo mentre le facevo) sono da intendersi come campane. O le due cose insieme. Infatti adesso che le riguardo vedo in molte il campanile di Sant’Agata, segno nostalgico del mio amato paese, ma anche segno di un indice puntato al cielo, e diffusore del festoso richiamo. Segno di un sogno.
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