La fotografia è un’arte solo in apparenza semplice. Illude facendoci credere che si tratta di una riproduzione “specchiata” della realtà (soprattutto nel confronto con la pittura) mentre c’è molto intervento umano nel farla. E poi ogni forma d’arte ha un suo proprio. Quello della fotografia è di fermare l’attimo che passa. Ma ciò che continuamente passa è perchè continuamente arriva. La fotografia fa riflettere sull’apparire nostro e del mondo, mentre noi badiamo e ci facciamo accalappiare dal contenuto con i seducnti suoi colori e forme. La bellezza del contenuto ci fa mettere in secondo piano il proprium del malinconico e drammatico lavorio del venire/andare del tempo, delle cose. La fotografia esalta la nostra contingenza. Nella mia ricerca (anche ludica) in cui metto in cortocircuito il mondo “reale” con quello apparente del riflesso, vorrei riportare in primo piano il fatto che è lo stesso reale a essere “strano”, non banale, un miracolo che appare, e nello stesso tempo far rifletere sulla domanda: è tutto apparente? E’, ciò che appare, un’apparenza? La vicinanza dell’apparenza (immagine spechiata) con il reale (immagine diretta), che confluisce poi in un’immagine in cui tutte e due le parti diventano identiche, aiuta a far capire che ciò che appare è reale, non fantasia, fumo, sogno, finzione aleatoria. Il reale appare, sta apparendo, mentre ciò che appare è reale, è vero. Penso infatti che noi possiamo avere la percezione della contingenza perchè abbiamo un sentore, un’intuizione della “permanenza”. Sa il movimento chi sa il fermo. Siamo sensibili all’eterno e per questo percepiamo la contingenza. Sì, la fotografia ha a che fare con la metafisica, con la religione. Ogni foto è insieme invocazione, cantico di gratitudine, urlo per l’impermanenza della vita. lode per il nostro esserci.
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