Sempre il Sabato santo, col suo silenzio divino, mi muove parole, mi spinge a dire la perfetta corrispondenza del giorno simbolico con i giorni reali vissuti dalla mia anima e dal nostro tempo. Un giorno che esprime i giorni. È l’icona orizzontale, in scala 1:1, della puntuale coincidenza tra rappresentante e rappresentato. Come giorno liturgico non ci sono particolari riti, se non la festosa benedizione delle uova decorate, che bimbi e adulti portano in cestini colorati. Una calca gioiosa in una chiesa spoglia, disadorna, priva del Signore nel tabernacolo, vuota della presenza di Dio. Nel Sabato santo siamo tornati, per poche ore, alla situazione ancestrale, cioè al primitivo fai da te nei confronti del rapporto con Dio: dobbiamo arrangiarci a cercarlo, a rappresentarlo, a immaginarlo. Ce lo siamo cercata, è vero. Chi lo rifiuta, chi lo scaccia a male parole, perfino lo fa fuori con violenza letale, poi non dovrebbe lamentarsi del suo silenzio, di questa assordante assenza.
Di fatto questo giorno rischia di essere l’unica vera religione di cui siamo capaci. Dopo l’euforia, per chi è accorto, ci si ritrova a guardare la tavola con i resti della festa. Troppo spesso si scambia l’entusiasmo per l’eliminazione del Dio di turno, per prendere il suo posto, con l’effettivo risultato. Fuoco di paglia. Il nostro io non è all’altezza. Come potrebbe scaldare se è lui che ha freddo? Come può darsi amore se è il nostro cuore ad essere mendicante? Non è atea la messa a morte di Dio. Dio non muore, si trasforma. Viene sostituito. Camuffato ritorna al centro. Sarà un Cesare, un Duce, un Furer. Sarà il nostro piccolo ego, la natura, o qualcosa che facciamo: scienza, arte, ideologia, religione. Coloriamo le uova e i cestini, ma se queste non sono attesa del Risorto, saranno solo vuoti diversivi, assurdi pannicelli per l’alto compito che devono soddisfare: darci senso, speranza, amore.
Proviamo con quelle parole a colorare i giorni, forse per un pò ci riusciamo, ma presto viene l’oste con il conto e la festa si trasforma. Festeggiare a scrocco è davvero sciocco. Prendiamo a prestito parole ereditate dal Morto, le facciamo nostre, ma cimrendiamo conto (non tutti per la verità) che funzionavano solo se erano sue. Amore, fiducia, speranza e senso pensiamo di poterle governare da soli. Sono cosa umana, diciamo, nella loro origine e pertanto lo saranno anche nella gestione. Ci illudiamo, cosapevolmente, perchè sappiamo fin dall’inizio che sono cose che ci capitano, che non siamo noi a fare scattare. L’amore è vocazione, chiamata, interiore od esteriore, ma sempre chiamata. Il senso è bello e valido se lo scopriamo, come un complimento, che ci appaga se ci viene fatto spontanemente da altri, non se siamo noi a scrivrelo sul biglietto. È così anche la speranza che deve appoggiarsi su qualcosa di obiettivo, di oggettivamente possibile: avete mai visto uno uscire dalla palute tirandosi fuori per le orecchie? Deve esserci terra vera, un appiglio reale su cui fare forza, altrimenti sprofondermo noi, le nostre mani e le nostre orecchie.
Caro Sabato santo, sei una festa di nostalgia. Nel tuo silenzio risuona il grido del “Che cosa abbiamo fatto?”, “Che razza di coglioni siamo stati a rigettare il solo che poteva tirarci fuori?”. Il tuo silenzio è anche punizione. Di una punizione che ha lo scopo non della vendetta ma di farci avere un sussulto. È un silenzio simile alle ghiande, alle carrube che fanno rinsavire il figliol prodigo. Che aspetti anima sola a rinsavire, a tornare questa notte là dove tutto comincia? Silenzio di attesa e preparazione. E i colori delle uova saranno festa. Non copriranno inutilmente il vuoto, ma diranno che è un’illusione. Prima c’è il pieno, il senso, l’amore. Sono prima, perchè prima c’è un Dio, anzi l’unico e vero Dio. Sempre quello, micca altri. All’inizio c’è da sempre il Parlante. È lui che riempie il vuoto di colori e suoni; fino all’uomo, che sa e che può, libero e conoscente. Quest’uomo fragile che ha una goccia di divino, di cui se ne inorgoglisce, scambiando il frammento per il tutto. Fino al giorno in cui il Tutto si fa frammento, viene sul palco a recitare con noi, a salvarci dal disastro. Stanotte alla Grande Veglia, dove tutto ricomincia, non posso mancare. Per dire GRAZIE.
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