C’è silenzio nel mondo. C’è assoluto silenzio. Tace la natura, non risponde a chi gli chiede “C’è un Salvatore? C’è ancora speranza?” La migliore possibilità è stata stroncata. Il migliore talento dell’umanità è rifiutato. L’ultima cartuccia per fronteggiare il mostro l’abbiamo sparata in aria. Ora la grande ruota del tempo può macinare indifferente. Guardiamoci con sguardo onesto. Tutto va avanti come se niente fosse: chi ama, chi odia, chi gioca e si trastulla. I giorni e gli anni inesorabili passano. “Chi crede in me non morirà in eterno”, diceva. Distrutto pure lui. Giace nella tomba. Quanti sogni si sono infranti sugli scogli del tempo. Nel silenzio del sabato santo tutti i fini di senso hanno perduto il ritmo. Ora le cose vanno mimando un senso ma ben sanno che è un belletto, un’eau de toilette troppo leggera per coprire il tanfo. Ci è stato tolto il traguardo. È un bel gioco pirotecnico quel che resta: colori, suoni, forme curiose, ma manca il perchè. Il fumo delle parvenze sarà risucchiato – presto, troppo presto – dall’immenso aspiratore universale. Slup.
Il giorno dopo la crocifissione del più bello tra i figli dell’uomo si assapora il mondo senza Dio. Il Cielo ha chiuso i battenti. Pensate davvero che ci darà un’altra religione? Credete di essere al ristorante dei vip? Questo no, quest’altro no, ancora no, non mi piace, non lo voglio, e il cameriere a correre per portare nuovi piatti. Suda dal tanto che corre. Un altro ancora, forse questo andrà bene, pensa tra sè. No, neanche questo gli piace. Ed eccolo che torna in cucina per cercare di accontentarci. Pensate che sia così dopo la morte per rifiuto del Diletto? No non è così che funziona, e non perchè al Dio di Israele non piaccia correre per noi e sudare. È che aveva portato in tavola il meglio della sua trattoria. Il Figlio stesso. L’amato del suo cuore. Adesso il refettorio è vuoto. Io e te a tavola con altri avventori. Le pietanza sono finite. Che facciamo? Chiediamo all’orchestrina di suonare un pezzo? Moriremo di fame ma almeno balliamo, prendiamola con allegria.
Oggi, sabato santo 2014, si simula il silenzio della speranza. Guardiamo il tran tran quotidiano e sappiamo che è una corsa senza traguardo. “Correte per il piacere di correre”, dice qualcuno. Ci ho provato ma è proprio il piacere a rattristarsi. Il piacere, la gioia, i momenti felici, sono ingordi, non accettano di finire. Dicono ancora, ancora. Pigolano con il becco all’insù come tanti uccellini nel nido. Sono promesse di quantità. Barlumi di ulteriorità. Proprio le cose e i momenti belli che si vorrebbero vivere per se stessi, sono loro che chiedono con insistenza: perchè così poco, perchè non ancora, perché non per sempre?
Dov’è il Dio Diletto? Volevamo fare festa, ma manca l’invitato speciale, l’amico caro non è venuto, ha disertato l’amata del cuore, colei che ci faceva ardere il cuore. Che le sarà successo? I festoni colorati sono inganni per gli occhi se la promessa non è mantenuta. Note stonate senza l’accordo. Come farlo capire? Sono gli amori, è la bellezza della natura, dei bei momenti, è la festa di una nascita, il giubilo di una guarigione, a reclamare la Vita. Chi vive nel dolore insistente, chi ha preoccupazioni che superano il bordo della sopportazione, quelli chiusi nelle gabbie dell’ingiustizia e della miseria, la moltitudine di vecchi depressi e di malati incurabili, tutti questi non piangono di finire. Per loro la morte è anzi un auspicio. Purchè sia rapida a colpire, la invitano e alcuni addirittura la bramano. Ma chi sta bene, chi può godere e assaporare vuole vita e ancora più vita. Non gli importa perchè si vive, chi ha fatto questo dono, a cosa mira tutto questo, conta solo abbuffarsi del buono che ha a disposizione.
Nel sabato santo l’umanità e l’intero universo si svegliano con la bocca impastata come dopo una sbornia. L’acqua viva, la luce del mondo, il profumo della casa, la risurrezione dei morti, la guarigione delle malattie, l’amico che gioisce delle urla dei bambini, che fa festa a casa dell’evasore, calma le acque del mare impazzito, moltiplica i pani e i pesci, trasforma l’acqua nel vino migliore per la festa di nozze, costui non c’è più. Assaporiamo questo assordante silenzio. Perchè potrebbe essere davvero così. Se Dio non esiste e tutto fosse frutto di una variabilità accidentale. Se non ci fosse alcuna intenzione nel rotolarsi del mondo, del mio apparire. Se il mio che sta scrivendo e il tuo che sta leggendo fossero strepitosi miracoli ma fulmineamente riassorbiti nel tritaforme del tempo come la scia di una barca tra le onde dell’oceano. Oh triste realtà. Che delusione dopo tutte queste belle promesse che mi hanno sorriso in una lunga vita vissuta. Le vedo sfumare intorno a me, ma altre rinascono. Il mondo è un’incessante fabbrica di illusione. Che fanfarona che è la vita, ci promette, millanta, crea scenari da favola, si sbraccia per sedurci e conquistare il nostro consenso, disegna nell’aria castelli da fiaba, conquiste di nazioni, miniere di tesori, crea miraggi sublimi di amori e feste, fortuna e fama. E noi a cascarci in continuazione. Sembriamo fatti per questo spietato gioco. Ogni volta che torniamo a casa delusi, non appena ci sediamo davanti a una tavola spoglia e consumata, subito appare una nuova illusione di bene, una promessa di felicità. Anche i più negativi e scettici ci cascano in continuazione, tra loro c’è chi ama scrivere di questo nulla e vuoto e chi addirittura lo canta, trovando note che attraggono e creano piacere e di nuovo illusione. E anche chi pensa al suicidio lo fa con la speranza di stare meglio. Di nuovo catturato da una nuova illusione di felicità. Anche chi cerca la morte non può evitare di farlo sperando in un sollievo. Sempre miriamo ad un bene, anche sbagliato, e a volte tremendamente sbagliato, ma sempre un bene. Immersi fino al collo nella trappola della vita. Non possiamo che essere liberi e cercatori di senso. Fatti per le promesse di felicità.
Il sabato santo è una scuola molto dura ma ci fa molto bene frequentarla. Non è detto che i maestri meno esigenti siano da preferire. Il mondo vuoto di speranza che oggi viene simulato serve proprio per spiegarci chi siamo (eterni viaggiatori alla ricerca del Tesoro) e come sarebbe il mondo e la vita dopo avere fatto fuori il Figlio dell’uomo. Davanti a Pilato Gesù tace (profetizzando il silenzio del sabato santo). “Che cos’è la verità?”, gli chiede il procuratore. È lui, il suo corpo, la sua persona, verrebbe da dire: guardalo, l’hai davanti agli occhi, toccalo, seguilo. Non servono parole per capirlo. Non ha fatto abbastanza per dimostrarlo? Ma Gesù tace anche perchè la coscienza di chi lo rifiuta possa assaporare per un attimo il silenzio della Parola. Tace perchè riecheggi la domanda senza risposta. Che cos’è la verità? C’è ancora verità senza lui? C’è semplicemente una verità in questo mondo? E senza verità pensiamo davvero che si possa vivere? L’opposto della verità non è solo il falso ma anche l’illusorio, il vuoto. Senza verità, certezza, consistenza della realtà, siamo in balia dell’apparenza e della totale equivalenza di ciò che appare. Niente è preferibile perchè tutto equivale. Valore e verità (realtà) sono legate insieme. Le forme che l’essere assume si equivalgono. Non c’è n’è una meglio dell’altra. Un caleidoscopio di disegni tutti simili. Il movimento della mano ne forma continuamente di nuovi, l’incessante divenire del tempo sforna infinite immagini e apparenze. Non che non ci sia il duro, attenzione. Il mondo apparente non significa che le cose non sono dure, che toccarle è come attraversare con la mano la figura di un fantasma. Il mondo è esattamente quello che abbiamo ora davanti agli occhi, quello che occupa i nostri sensi, tatto compreso. Ma se non c’è verità, se l’insieme di ciò che esiste è radicalmente apparente, vuol dire che non ha alcun senso, perchè la stessa idea di senso non è vera, è una chimera. C’è e basta il mondo. E ogni cosa che c’è va bene che ci sia. È questo il duro pensiero sottinteso nel silenzio del sabato santo. Discriminare, scegliere e giudicare positivamente o negativamente quello che accade significa reintegrare un’idea di senso, che ci debba essere forma buona e forma cattiva, constatare che qualcosa deve esserci in una certa maniera mentre quell’altra cosa non avrebbe dovuto esserci. In un mondo apparente possiamo ancora continuare a parlare di cose, anzi, forse dobbiamo parlare solo di cose. Freddamente di cose. Tutte alla pari. Pari dignità di ogni cosa.
Così dovrebbe essere la vita se si fosse un pò conseguenti ai presupposti di una visione atea della vita. Se si fosse coerenti. Logicamente coerenti. Ma si potrebbe obiettare che Pilato e i Sacerdoti, che hanno fatto fuori Gesù, erano credenti, non erano atei, in qualche Dio credevano. Pagani, monoteisti. Senza Gesù il mondo non è orfano di Dio. Eppure mi sembra di sì. L’accusa del tribunale è chiara. Viene condannato perchè ha bestemmiato, egli si è fatto come Dio. Siamo al bivio decisivo: o Gesù è un pazzo scatenato o è sincero. Già durante la sua predicazione i figli del popolo eletto hanno cercato di lapidarlo per quel motivo. “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”. E durante il processo il sommo sacerdote davanti al suo silenzio (di nuovo una profezia del sabato santo) gli dice: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio”. “Tu l’hai detto”, gli risponde Gesù. Il capo religioso si straccia le vesti: “Ha bestemmiato! Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; che ve ne pare?”. Già, che ve ne pare? Che cosa c’è n’è pare? Cosa scegliamo? Pazzo che parla di mondi inesistenti o Testimone di un altro mondo, del mondo vero che dà verità a questa vita? Pazzo o Testimone? Il giudizio emesso è di morte, lo sappiamo, e oggi, sabato santo, misuriamo l’estensione del silenzio di verità e bellezza che ne è seguito, assaggiamo la sconfinatezza dell’equivalenza di tutte le cose: Auschwitz e Barbiana (la scuola di Don Milani) uguali nel valore. Niente giudizio. L’essere è così, gioco senza senso. Indecidibile perchè la decisione discrimina e valuta, mentre il valore non deve esistere, in quanto presuppone scopo e finalità della vita. In una pozza di bolle di fango che sbottano a caso che senso ha dire, delle bolle, questa è ok o quest’altra non ci doveva essere? Tutto accade, tutto gira senza motivo. E anche in un’ottica religiosa, che l’uomo cerca per non restare orfano del gusto di vivere, c’è del lavoro da fare, ci si dovrebbe chiedere se è la religione vera. Posti di fronte a un Dio che si rivela e vuole farsi conoscere non si possono trattare alla stessa maniera, in maniera equivalente, tutte le forme di religiosità. Qualcuna sarà più vicina alla verità delle cose divine mentre altre ne saranno lontanissime. Il satanismo è sideralmente lontano dai monoteismi. Ma anche il cristianesimo, la fede che nasce dalla testimonianza di Gesù, è come stella del mattino rispetto alle luci della notte dei monoteismi pre e post cristiani. Rifiutare la sua piena luce rimanendo monoteisti, anche se meglio della piena notte, ci lascia tuttavia ancora nell’oscurità.
Senza un Dio che entra nella notte terrena, che si fa abbracciare materialmente nel corpo, che muore come tutti, sottoponendosi esperienzialmente alla ruota della necessità, resta un Dio nell’alto, lontano dalle nostre disgrazie, un solitario padrone che comanda senza sperimentare lui stesso, un generale che ordina dall’alto della collina, fuori dalle trincee, lontano dal puzzo di feci e sangue, dal dolore degli arti spappolati. Un Dio che si farà presto a bestemmiare e poi rifiutare, lasciandoci nel trionfo dell’equivalenza, per la quale il male diventa normale. Un Dio male interpretato, il rifiuto del Dio incarnato e crocifisso, ci lascia con un divino astratto, etereo, pulito e candido, senza materia e tempo, senza dolore e morte. Le nostre scappatoie in gnosi di sapienza evaporeranno alla prima sconfitta, al primo (o al secondo se siamo resistenti) faccia a faccia con l’assurdo e la morte. Questo Dio immateriale, trionfante nell’Olimpo, in perpetua vacanza dal suo mondo, questo Dio vacante, ci stuferà presto e lo abbandoneremo schifati. Siamo superiori a lui nel nostro dolore. Noi, esperti della trincea, guardiamo negli occhi con disprezzo il generale al sicuro dalle cannonate e dalle baionette. E cosa resterà? Il regno dell’Immanenza e dell’equivalenza. Eravamo partiti scandalizzandoci del male, abbiamo attraversato al città del disperso per un un Dio distante e indifferente e infine siamo arrivati al capolinea del silenzio della pura equivalenza. Avevamo rifiutato Dio perchè ci scandalizzava il male e ora dobbiamo stare zitti perchè tutto è diventato (per coerenza) normale, accettabile, non rifiutabile (se solo ha senso la coerenza con il presupposto della pari dignità di cose ed eventi). Solo la Croce, solo un Dio crocifisso è all’altezza delle aspettative. Un Dio solidale con la feccia, con la fossa. Solo un Dio che ci finisce dentro, e nel modo più spettacolare, ci può capire e può perdonare l’alterigia dei nostri rifiuti.
Cavolo se è necessario che il Gesù di carne sia Dio, suo Figlio diletto, e che sia morto davvero. Non ci ha portato un teorema, una gnosi, una conoscenza astratta. Ci ha portati una presenza, una testimonianza in diretta. “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Il Padre, l’inizio di tutto, è presente nel figlio e vive con lui la lotta e l’agonia. Solamente se la morte è vinta da dentro, se un corpo umano risorge per davvero da morte e poi non muore più, solo così può rifiorire la speranza. È chiaro che il sabato santo è una simulazione. Sappiamo della Pasqua di Gesù. Tutto questa storia si può raccontare perchè c’è stata la Pasqua. È la risurrezione di Gesù ad avere scatenato la memoria di ciò che l’ha preceduta, il Venerdì del rifiuto violento e il Sabato dello sbigottito silenzio. I discepoli hanno visto e toccato Gesù risorto, da allora si fa memoria di quegli eventi. Li assaporiamo per approfondirli e gustarne la portata. È chiaro che attendiamo la notte santa della Pasqua. È proprio chi ha assaggiato la luce che conosce il dramma della cecità. Ed proprio chi ha assaporato la verità dell’annuncio di Pasqua che conosce l’ampiezza dell’insensatezza di una vita senza quella luce. Orsù non siamo ingrati. Accettiamo e lodiamo la verità che ha illuminato di speranza la macina del tempo. Vasco Rossi in “Dannate nuvole” canta che “in questa valle di lacrime” “le cose sfuggono dalla mente, tutto si deve abbandonare, niente dura, tutto è fumo, niente è vero, non esiste niente”, e tuttavia sperimenta che “tu non ti ci abitui mai… tu continuerai… tu non ti arrenderai”, e si chiede con stupore e insistenza “chissà perchè”. Perchè non ci arrendiamo nonostante la percezione dell’insensatezza e della possibile equivalenza di tutto ciò esiste? Cos’è che ci fa andare avanti? La notte di Pasqua. La gloria della risurrezione di Gesù che rende acuti la violenza del Venerdì santo e il silenzio del Sabato santo.
Coraggio, guardiamo con fiducia alla Domenica di Pasqua. Non è forse ragionevole pensare che percepiamo il passare, l’impermanenza, la vanitas, proprio perchè c’è in noi il senso dell’eterno? Per avvertire che tutto passa e che è inconsistente dobbiamo conoscere un punto fermo e la consistenza. In riferimento al Fermo vediamo il movimento e rapportandolo al Reale sentiamo il vuoto. La fabula di Dio è vera ed è una favola. Ed è ben più sensato accettare il racconto di Pasqua che rifiutarlo. Siamo fatti per la vita. Il silenzio (morte, impermanenza, insensatezza, equivalenza…) suppone il canto (senso, realtà, vita, verità, giustizia, eterna festa…). La luce è prima del buio. L’essere è prima del nulla. E la luce si dà, si dona continuamente, non sta ferma sulle alture, distaccata dalle cose, indifferente alla realtà. La luce ama le cose, anzi le fa esistere, le chiama dal nulla e le abbraccia. Anche il buio e la riposante notte esistono grazie alla luce. Assaporiamo la luce. Gustiamo il suo significato. Facciamoci prendere da ciò che simboleggia. “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre”. La Pasqua di Gesù (e nostra) è la perfetta immagine di questo Dio che si dona totalmente.
“Hai compassione di tutti, perché tutto puoi,
chiudi gli occhi sui peccati degli uomini,aspettando il loro pentimento.
Tu infatti ami tutte le cose che esistono
e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata.
Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta?
Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza?
Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue,
Signore, amante della vita”. (Sapienza 11, 23-26)
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